Novelle ritrovate nr.2: La scatola di Aminda_2001


La scatola di Aminda
Nel locale la pioggia pareva essersi fermata dentro: le pareti erano sempre umide e dal soffitto continuava a cadere una goccia d’acqua sottile, di cui Aminda non capiva l’origine.
Per evitare che la goccia cadesse diritta sul letto spesso cambiava l’arredamento interno della stanza, anche se dopo poco era costretta a modificarlo di nuovo. Aminda aveva un viso lineare e la corporatura snella: la pelle color oliva le illuminava gli occhi castano chiaro e da qualche tempo aveva perso l’abitudine di truccarsi. Il passatempo preferito di Aminda nelle ore di riposo erano i quotidiani, in cui non solo amava leggere tutto quello che riguardava la politica estera ma dai quali sapeva ricavare utili stracci per asciugare il pavimento della sua stanza.

Il proprietario della villa in cui Aminda lavorava, tale Alessandro, da qualche settimana era assente e come ogni buona domestica durante i giorni senza supervisione diretta, era solita riposare per diverse ore durante il giorno, nonché usufruire di alcuni servizi della casa a lei tacitamente negati. Aminda era grata al padrone di casa per il lavoro e per la sua cortesia ma non riusciva ad apprezzare il suo carattere spesso solitario e triste, a tal punto che per sfuggire alla solitudine che vedeva in quella casa spesso si circondava di persone con cui conversare o ascoltare musica. Contravvenendo alle regole, Aminda decise in quei giorni di ricevere la visita di alcune care amiche direttamente nelle stanze padronali, servendo del tè che il signor Alessandro prendeva personalmente in India, durante i suoi frequenti viaggi di lavoro.
Quello che accomunava Aminda e le sue amiche era solo la professione. Tutto il resto era differente: nazionalità, convinzioni, abitazione e vita quotidiana erano come in un carnevale e di questo Aminda si rallegrava. Le piaceva avere di fronte persone tutte diverse e osservare le caratteristiche di ognuno le dava una dolce sensazione di sicurezza, oltre che illuminare quella casa sempre silenziosa e buia.
Sabine, di origine turca, amava raccontare della sua infanzia felice e del fatto che da piccola vivesse in una casa grandissima, contornata di collaboratori “molto servizievoli” da cui aveva ricavato i suoi modi di lavorare molto eleganti che a suo dire erano apprezzati dagli ospiti.
Muhad, nato in Marocco, lavorava in una villa a cinque chilometri da lì e aveva al primo posto nei suoi discorsi la crisi internazionale: la religione era per lui la guida dell’intera esistenza, mentre la causa della violenza globale attuale era a suo dire totalmente dell’occidente, per quelle che lui chiamava “offese alle genti straniere”.
Emilie infine era una ragazza francese che era passata solo due o tre volte, ma che Aminda conosceva da molto tempo. Con lei in casa pareva che anche le mura fossero contro il suo vivere: il suo atteggiamento vittimistico le dava una certa sicurezza e poteva così prevenire eventuali dispiaceri. Quel giorno nel salone padronale erano presenti tutti insieme e il carnevale di punti di vista prese a ballare attorno al tema della loro condizione lavorativa. L’origine dell’incontro e la causa di quella riunione di gruppo riguardava il rinnovo del contratto di Emilie, che la sua padrona di casa sembrava non voler prendere in considerazione.  Dopo essersi fatti spiegare il problema, gli ospiti della casa reagirono in modo diverso.
Il primo a insorgere fu Muhad:
“Ecco un altro esempio di mentalità scorretta: noi collaboratori domestici siamo uguali agli altri ma lo stato italiano sembra non accorgersene.”

“Non credete che sia necessario chiedere aiuto a qualcuno?” disse con voce preoccupata Emilie, che poi aggiunse:
“Dopotutto sono tanti anni che io lavoro per quella casa e sono sicura che il contratto che ho firmato tempo fa non sia del tutto regolare. Certo che solo a me capitano queste cose... ”

A questa proposta Muhad rispose con fermezza:
“E chi potrebbe essere questo “qualcuno”? Quale autorità? Nessuno ti può aiutare, qui è una questione di mentalità!”

Seduta sul divano con aria pensosa Sabine era intenta a osservare le mura della casa del signor Alessandro, che a stento mostravano il colore roseo delle pareti nascoste da ritratti antichi e cornici ricercate; chiamata in causa da Emilie rispose:
“Dobbiamo tutti puntare più in alto, pensare a impreziosirci per essere apprezzati da altre famiglie e avere altre proposte di lavoro. Guardati in giro: se tu avessi un aspetto più elegante non troveresti subito una nuova famiglia con cui lavorare? Quando ero giovane, i miei domestici cambiavano spesso e nessuno si lamentava.”

A quelle parole Muhad guardò negli occhi di tutti cercando un dissenso che solo gli occhi impauriti di Emilie parevano trasmettere, poi disse con veemenza rivolto verso di lei:
“Ma smettiamola di guardare alle cose superficiali! Sabine è troppo giovane per capire: qui le proposte non ci sono, le famiglie non ci vogliono e a nessuno piace fare il lavoro che facciamo, solo che non c’è altro!”

Il tè indiano era ormai freddo ma solo Aminda pareva averne bevuto un po’: fino a quel momento non aveva aperto bocca e gli altri ospiti non erano per nulla sorpresi. Il suo carattere era particolare e misterioso, come se restasse attenta a ogni cosa senza avere un’opinione su nulla. La discussione si protrasse per un’ora circa, senza che si potesse trovare una soluzione e senza che Aminda dicesse nulla. Uno a uno gli amici se ne andarono e la stanza rimase vuota. Aminda rimase da sola e dopo aver ripulito ogni cosa, si ritirò nella sua stanza al piano di sotto, da dove sentì rientrare il signor Alessandro. Facendo finta di non aver udito lo scricchiolio della porta d’ingresso, Aminda si mise nel suo letto con uno sguardo al soffitto che quella sera sembrava non avere goccioline d’acqua.
In quella stanza Aminda ripensava spesso alle cose che sentiva dai suoi amici e da qualche sera le piaceva pensare alle persone con un’immagine: quella che ognuno dei suoi amici portasse sempre con sé una scatola. Non era un’immagine realistica ma questa idea delle scatole le sembrava giustificare ogni atteggiamento: in questi piccoli contenitori che ognuno aveva con sé, venivano riposti con cura alcuni piccoli oggetti, secondo una logica che doveva essere difesa da quella degli altri. Quando s’incontrava un’altra persona era come se le scatole fossero aperte e disposte su di un tavolo, dove ognuno spiegava come aveva disposto gli oggetti e prendeva le difese della propria opera. Alcuni oggetti della scatola tuttavia, non venivano mai mostrati. Durante la discussione era successo proprio così: Muhad aveva disposto i suoi oggetti secondo uno schema basato sul dissenso di civiltà. Emilie invece era come se avesse apparecchiato la sua tavola con il timore che qualcuno volesse mutarne l’ordine. Sabine era invece stata molto attenta a fare in modo che i suoi piccoli oggetti fossero più attraenti agli occhi degli altri.
Queste scatole non si vedevano, erano secondo Aminda dentro la testa di ognuno dei suoi amici. Raramente il confronto delle scatole poteva trasformarsi in un accordo; la sintonia e l’amicizia tra le persone nascevano quando la disposizione dei contenuti delle scatole era simile, mentre il dissenso sfociava nel momento in cui gli oggetti apparivano sai diversi sia disposti in modo molto differente.

Questi pensieri quella sera si rivoltarono contro di lei e poco prima di chiudere gli occhi si mise a pensare: “E la mia scatola? Com’è fatta? Come dispongo le cose al suo interno?”.
Per quanto si sforzasse, proprio non sapeva trovare una soluzione.
Il giorno successivo approfittando di una giornata di poco lavoro domestico si recò al vicino cartolaio e comprò una scatola di cartone floreale. Dopo averla portata nella sua stanza, la mise vicino ad alcune palline di carta ricavate dal giornale. Aminda con quell’esperimento voleva cercare di mettere ordine nella sua scatola, per creare un legame tra le cose contenute e avere anche lei le idee chiare come pareva le avessero chi conosceva. Con un certo stupore però non riusciva a sentirsi soddisfatta e per quanto ridisponesse le cose dentro la scatola, non riusciva a dare ordine al contenuto. Dopo qualche tentativo decise dunque di abbandonare l’esperimento. Da quella semplice prova capì che lei una sua scatola non l’avrebbe mai avuta.
Avvolta da questi pensieri Aminda non si accorse che il signor Alessandro era rientrato e fu sorpresa nel vederlo al suo fianco:
“Oh... buongiorno signor Alessandro... ha bisogno di qualcosa?”

Egli rispose con tono semplice:
“No, no... nulla d’importante ma ti prego, vieni a sederti sul divano accanto a me”.

Aminda sorpresa e preoccupata annuì come sempre e si sedette di fronte a lui, sulla poltrona in cui la sera precedente Sabine osservava i quadri, che con la luce del sole non avevano perso la loro atmosfera cupa.
“Vedi Aminda”, iniziò Alesando, “... da molto lavori per questa casa e non mi hai mai detto come ti trovi, neppure cosa pensi di me e del lavoro che fai”.

Aminda tirò un sospiro di sollievo e convinta che egli avesse solo bisogno di compagnia rispose: “Sono contenta del lavoro, la ringrazio molto di tutto. Mi è difficile dire però cosa penso di lei, perché io non ho una mia scatola... o meglio non riesco bene a costruirla... cioè non so ancora se è giusto averla, anche se tutti ne hanno una”.

Il signor Alessandro la guardò con interesse e si fece raccontare bene cosa fosse quella storia delle scatole, poi disse:
“Dunque, se ho capito bene, tu immagini che ognuno di noi abbia una scatola con un certo ordine interno. Quando le persone s’incontrano e si conoscono mostrano l’una all’altra la loro scatola quasi totalmente aperta, le confrontano e da qui nasce tutto il rapporto”.

 Aminda annuì nuovamente ma con vivo interesse aggiunse:
“Gli unici diversi sono i bambini: a loro scatola è vuota e fingono di disporre gli oggetti secondo l’adulto che hanno di fronte”.

Alessandro sorrise, e divertito domandò:
“Ma tu, Aminda, perché non hai una scatola?”

Lei con voce pensosa rispose:
“Non lo so, ma sono contenta di non averla e spero di mantenere questa situazione ancora per molto tempo, se a lei non dispiace”.


Il signor Alessandro sembrava non aver inteso e troppo stanco per ripensare alla faccenda salutò Aminda e si ritirò nella sua stanza da letto, in cui le pareti avevano le riproduzioni dei quadri che erano in soggiorno. Prima di prendere sonno ripensò alle parole di Aminda senza riuscire a comprendere il fine del suo discorso.

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